Il massimalismo contraddistingue il cinema di Damien Chazelle. I suoi film parlano di corpi portati allo stremo (Whiplash), e non a caso La La Land si confronta con il genere massimalista per eccellenza, il musical. Babylon non sfugge alla tendenza, anzi – se possibile – la estremizza. “Dignity, always dignity” proclamava Don (Gene Kelly) in Cantando sotto la pioggia – e poco dopo, in flashback, la sua ascesa era ripercorsa sotto il segno ironico dei suoi opposti, la derisione e il compromesso. Il film di Chazelle, che usa come stella polare proprio il capolavoro del ’52 – e, in maniera abbastanza discutibile, C’era una volta a Hollywood di Tarantino –, viaggia all’insegna di “Bassezza, sempre bassezza”, in un’intensificazione del prototipo allucinata e funerea. È un altro capitolo dell’auto-j’accuse che Hollywood ha lanciato contro se stessa (cfr. Blonde): facevamo schifo, e si salva solo chi all’epoca era messo ai margini o trattato come una pezza (messicani, afroamericani, orientali).
Paradossalmente, accanto a questo fare accusatorio à la page trova posto una celebrazione vitalistica dei tempi che furono, e della Settima arte stessa: con una buona intuizione, è sottolineata la smodata chiassosità dei set del muto in opposizione al silenzio forzato e snervante di quelli del sonoro, e l’apoteosi finale, in cui in una sala cinematografica scorre una sintesi del cinema tutto (dall’arrivo del treno dei Lumière ad Avatar), si colloca tra il grandioso e il baracconesco. Babylon, sembra dirci Chazelle, è il luogo della perdizione per antonomasia ma, al contempo, la straordinaria Babele delle mille lingue diverse del cinema. La dicotomia grandioso-baracconesco si ripete nell’utilizzo intensivo e in bella forma delle deiezioni (arrivano a sporcare lo stesso obiettivo della cinepresa, come il sangue in alcuni war movie): una sintesi impossibile tra il demenziale scatologico e metacinematografico di Keenen Wayans & Co. e la ricostruzione patinata modello premi Oscar, non del tutto disprezzabile nella sua follia.
Lo spunto più interessante sta nell’aver in qualche modo ribadito – consapevolmente o inconsapevolmente poco importa – il carattere allegramente cimiteriale dello stesso Cantando sotto la pioggia, di cui questo film potrebbe essere considerato un remake-matrioska iperrealistico o orrorifico (vedasi la discesa agli inferi in un orifizio – l’ennesimo – di Los Angeles). Perché il musical di Donen e Kelly, nel suo impanto repertoriale – non solo afferente alle musiche, ma anche alle immagini: l’establishing shot iniziale sul Chinese Theatre viene da È nata una stella, che a sua volta lo riprendeva da filmati di repertorio della prima de Il giardino di Allah! –, parlava sostanzialmente di morti viventi. E in Babylon di vivi ne rimangono pochi, e gli zombi si sparano in testa da sé.
Paolo A. D'Andrea
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