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Copenhagen Cowboy... e un paio di note su NWR




L’ultimo film di Nicolas Winding Refn per il grande schermo – The Neon Demon – risale al 2016. Prodotto a cavallo tra Europa e Stati Uniti, fu un disastroso fiasco al botteghino – non diversamente da Solo Dio perdona (2013), il film appena precedente. Le aspettative generate da Drive (2011), l’opera con la quale Refn sembrava potersi accreditare una volta per tutte presso l'industria hollywoodiana e il pubblico internazionale, andarono così deluse in modo sin troppo repentino.

Refn, a partire dal 2019, ha trovato nuova casa presso il regno del VOD. Il regista danese – non certo il primo a compiere questo percorso tra gli autori "alti" della contemporaneità – è stato accolto dapprima da Amazon (Too Old to Die Young) e successivamente dal main player del settore, Netflix (Copenhagen Cowboy, 2022). I tre anni di silenzio artistico che dividono The Neon Demon da Too Old to Die Young hanno contribuito a modificare i connotati del culto che le frange cinefile più giovani e artsy hanno tributato, da Pusher – L’inizio (1996) in poi, al talento di Copenhagen: da autore semplicemente alt, Refn è diventato autore maledetto – baciato dall’insuccesso. Refn è uno di quei cineasti destinati a rimanere, per così dire, eternamente giovani: forse per quel carattere “preparatorio” che contraddistingue la sua filmografia, nella quale ogni capitolo sembra promettere una maturità di lì a venire, e mai davvero raggiunta. In realtà, il danese ha superato nel 2020 la soglia dei cinquanta, e il suo cinema ha più di venticinque anni: Refn è – o dovrebbe essere – un autore maturo, per il quale è – o dovrebbe essere – giunto il tempo di un bilancio.

Senza perderci a ripercorrerne la carriera nel dettaglio e dal principio, ci limiteremo a dire che, da Valhalla Rising – Regno di sangue (2009) in poi, il cinema di Nicolas Winding Refn si è progressivamente mitologizzato. L’estetica della violenza che costituisce uno degli assi portanti della sua immagine filmica è stata in quell'occasione traslata per la prima volta, tramite una vicenda altamente allegorica ambientata nell’XI secolo, dal tempo presente dei sei film precedenti a un tempo mitico – così se non altro l’avrebbe chiamato Mircea Eliade. In Drive, il tempo mitico è quello dell’immaginario cinematografico stesso: il cronotopo in cui si muove il Pilota interpretato da Ryan Gosling non è la Los Angeles del XXI secolo, ma una civitas imaginum allestita sul basamento della post-classicità americana (William Friedkin, Walter Hill, Michael Mann, etc.). In Solo Dio perdona, il tempo mitico è rilanciato tramite il collegamento diretto con il retaggio atavico della tragedia greca: in una Bangkok notturna e ferale si dipana una sanguinosa trama edipica, dominata dalla figura di un poliziotto in pensione che assume via via i caratteri di un’arcaica e spietata divinità della Giustizia. Con The Neon Demon, infine, la rielaborazione del mito di Narciso va di pari passi con l’ipercitazionismo cinematografico, in un pot-pourri orrifico e altamente stilizzato.

Nei film appena citati, le figure sono messe a schermo tramite una modalità di rappresentazione che definiremo teurgica. Con teurgia il tardo neoplatonismo (Porfirio, Giamblico, etc.) significava l’arte di costruire statue e immagini in grado di accogliere la divinità; e i tipi refniani – dacché programmaticamente del personaggio non hanno la profondità psicologica – detengono infatti in queste opere una qualità statuaria e sacrale al contempo. In Spezzare il tetto della casa, il già nominato Mircea Eliade scriveva: «ogni gesto religioso è la ripetizione di un archetipo». Per Nicolas Winding Refn, ogni gesto filmico è la ripetizione di un archetipo. Le sue figure-statue, chiuse in una straniante fissità espressiva – o eternità espressiva –, agiscono per gesti archetipici: gesti che, non a caso, derivano i loro presupposti e manifestano le loro conseguenze in momenti sacrali. Sono, essi, i momenti della nascita e della morte.





Secondo questa logica, muoversi, per Refn, significa inabissarsi. Il movimento appare esteriore, ma è interiore. In Bronson, il protagonista esce dal carcere solo per imbastire le condizioni per rientrarvi – la prigione è la sua «camera d'albergo», la reclusione la sua unica comfort zone; in Valhalla Rising - Regno di sangue, il viaggio dei vichinghi verso il Nuovo Mondo è un precipitare nello smarrimento di sé. Drive concepisce e mostra lo spostamento, certo, ma il night drive cui si dedica ripetutamente il Pilota è in verità un viaggio cinefilo – e dunque per definizione autoreferenziale – nell'iconografia di quarant'anni di cinema di genere americano (e non solo). Da Too Old to Die Young in poi, il trasferimento da uno spazio all'altro è sostanzialmente cassato dalla diegesi: il che sancisce un'evoluzione estrema del principio di cui sopra. I personaggi non si muovono più, ma appaiono. Tutto torna: sono statue sacre.

Too Old to Die Young, spezzato come fosse una miniserie in dieci puntate, è in realtà un film di tredici ore. È il momento di massime evidenza ed espansione della poetica-estetica refniana: un neo-neo-noir mastodontico e allentato, spiccatamente afterpop nella sua commistione di alto e basso e nel suo lavorio incessante sull'ibridazione di generi – anche letterari: il film è scritto a quattro mani con il fumettista Ed Brubaker – e "cinemi". La cassetta degli strumenti stilistici del danese prevede: estenuanti inquadrature-sequenza, panoramiche lentissime e tensive, improvvise e truculente esplosioni di violenza – nelle quali si intravede la lezione di Kitano Takeshi. Slow cinema all'ennesima potenza. Figure-statue si muovono in un mondo-camera iperbarica: la virtuosistica fotografia di Darius Khondji – vera e propria apoteosi del neo-bariolage –, di concerto con le sonorità sintetiche e ipnotiche dello score di Cliff Martinez, sostanzia un ambiente in cui l'astrazione convive con l'iperrealismo – sempreché ci dimenticassimo che l'astrazione è il destino di ogni iperrealismo. È un inglobante che evidenzia un approccio antiumanista in quanto antipsicologico: il personaggio per Refn è funzione, ma non nel senso narratologico. È funzione dacché incarnazione di un archetipo. È per questo che le puntate portano nei titoli gli arcani maggiori dei tarocchi.

Copenhagen Cowboy scaturisce paradossalmente da un movimento, ma reale: quello che riporta Nicolas Winding Refn in Danimarca, per realizzare un'opera in lingua danese a diciassette anni di distanza da Pusher 3 - L'angelo della morte. Al di là dei giudizi di valore – come avrete notato, non ne abbiamo espresso alcuno –, Copenhagen Cowboy rappresenta la summa del cinema di un autore che, nel frattempo, si è autoproclamato brand umano. Non più Nicolas Winding Refn, ma NWR. Quasi a voler depositare il brevetto di uno stile, di un modo di intendere e fare cinema.


Paolo A. D'Andrea

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